Identità perduta del rifugio
Sono uno degli ultimi valori che identificano ancora il mondo alpino: i rifugi. Per questo motivo, qualche giorno fa ho accettato con molto interesse di tenere un breve intervento nei pressi di Castel Toblino, ospite dell’assemblea annuale dell’Associazione Gestori dei Rifugi del Trentino.Erano presenti varie personalità e alcuni dei principali referenti provinciali del marketing turistico del Trentino. Una bellissima organizzazione.
Durante i lavori ho apprezzato in particolare gli intervenuti di alcuni gestori dei Rifugi, gente abituata a stare nella natura, che ha trasmesso una sensibilità autentica verso un tema sentito da chi conserva nel proprio cuore la ricerca di …un’ identità perduta dei rifugi.
L’identità è sempre un tema delicato.
Vuoi che si tratti di persone che di territori o di valori.Dietro questa parola ci sono storia, miti, archetipi, e quel qualcosa che si può “sentire” – quando si vive una dimensione della natura circondata dal silenzio e dalle piccole cose. Tuttavia, affrontare l’identità in un’epoca tecnologicamente iper-connessa, “webbizzata” e digitale, comporta una difficoltà intrinseca non di poco conto. Il silenzio e la lentezza del mondo della montagna si contrasta con la velocità e il “rumore” del monto internet, che per quanto digitale sia, è pur sempre un brusio nella nostra materia grigia.
Identità e oblio
Quando cerchiamo di definire i valori di una terra, siamo chissà perché, contesi da un dilemma: tramandare un valore del passato in modo autentico o adattarsi ai compromessi che le innovazioni ci tentano. E’ un bel dilemma, soprattutto quando le innovazioni si susseguono. Così mi metto nella testa di un gestore e mi chiedo: dove ci porterà tutto questo?
È questo che desidero veramente per aver scelto questo lavoro?E nel cuore il gestore ha una certezza: l’identità è ancora uno dei pochi temi che tutelano la conservazione di valori distintivi autentici di una terra.
Come conciliarli con il mondo moderno senza rischiarne l’oblio?
Un tempo, quando i rifugi alimentavano il proprio impianto di riscaldamento a legna, esistevano “i portatori“, una categoria di persone che portava a spalle la legna al rifugio, solo per poter pagarsi il soggiorno e assaporare più da vicino la montagna.
Questo compito faceva parte di uno scambio, ma anche di una funzione, che avrebbe consentito a questa persona di divenire un giorno guida alpina. Una nota di valore della persona, quindi. E il gestore gliene era grato, perché aiutava la vita del rifugio, ne rafforzava un’identità isolata, cosa ne rafforzava il fascino distintivo.
Oggi ci sono impianti, gatti delle nevi, elicotteri, tecnologie, e il fascino distintivo del luogo non è più così facile da cogliere, soprattutto per una serie di burocrazie e aspetti operativi che la complessità del mondo d’oggi ci impone.
Tali complessità si sono prese una bella fetta di tempo e non è facile ricordarsi dell’identità quando occorre pagare le forniture, amministrare l’impresa e gestire la burocrazia le cui carte son giunte in cima alla montagna, pensare agli investimenti per le leggi sulla sicurezza, quelle sulla potabilità dell’acqua, le svariate proposte marketing necessarie per far conoscere il nostro rifugio e quindi renderlo economicamente attivo…
Ogni spiegazione sulle necessità di ogni singolo punto è logica, tuttavia percepivo che giocoforza ogni operatore rischia di allontanarsi sempre più dal significato del valore cuore: il rifugio. E con queste difficoltà, come possiamo trasmetterlo poi al nostro ospite?
Riprendiamo il valore cuore: il rifugio.
Cosa significa realmente oggi un rifugio?
Cosa vuol dire la parola “rifugio”?Facciamo un passo indietro nella storia. I rifugi sappiamo erano nati per aiutare i viandanti. Persone che in passato attraversavano le Alpi e avevano bisogno di luoghi ove trascorrere la notte e rifugiarsi in caso di condizioni meteorologiche avverse.
Cosi almeno dal 1700 fino a pochi decenni fa. Solo negli anni ‘80, con lo sviluppo del turismo di montagna, i rifugi sono diventati piccoli alberghi che, pur offrendo in molti casi solo servizi essenziali, ospitano non solo alpinisti ed escursionisti, ma anche turisti.Nella Svizzera italiana il termine rifugio conserva ancora l’antico significato di una struttura più spartana, più piccola, che comunque offre all’escursionista un tetto per ripararsi dalle intemperie e un tavolo, una cucina e un giaciglio al coperto.
Oggi il rifugio, grazie alle molteplici forme di comunicazione e promozione, è molto più conosciuto e i gestori hanno la necessità di rispondere sempre più e sempre meglio alle diverse esigenze che vengono loro sottoposte dal mercato, ovvero accoglienza capace di erogare un servizio ristorativo di qualità, di servizi diversificate, di tecnologie avanzate e veloci per lavorare e connettersi col mondo… tutte cose interessantissime e necessarie per godere dei privilegi dell’innovazione.
Eppure, nel proprio cuore, il gestore ha la consapevolezza che non è solo quella direzione il percorso obbligato per la propria sopravvivenza. Non si può entrare in una logica di ricerca
Occorre anche trasferire in maniera più forte e determinate la propria identità: chi sono e quali valori mi appartengono, affinché l’ospite che ci sceglie, sceglie anche di conoscere un pezzetto di anima di quel rifugio.
Perché è ciò che anima quel “valore distintivo della terra” il valore che educa e insegna.
Viceversa, una direzione solo promozionale superficiale, innesca inevitabilmente una direzione opposta: rinunciare ad un altro piccolo pezzetto di anima.
Il tempo del rifugio
Prendiamoci un attimo a ricordare quel modo di andare in montagna che lasciava nel cuore la sensazione di poter vivere quella natura ancora incontaminata dal controllo dell’uomo. Nell’epoca dell’alpinismo classico, quello in cui esistevano ancora i portatori, i turisti italiani amanti del gusto erano una rarità e quando giungevano al rifugio, imparavano il rispetto della tradizione e gustavano anche la peggiore zuppa, perché tutto, zuppa compresa, aveva il senso di una prova di “conquista allo spirito della montagna”. Quello era il tempo dei rifugi. Allora i mezzi scarseggiavano: il muoversi dalla città e avvicinarsi alla montagna era già un’impresa: consentiva di gustare la preparazione all’incontro con qualcosa che non apparteneva alla dimensione umana, un ambiente in cui si era veramente soli, ma protetti. Il luogo in cui ogni essere umano gustava il piacere della libertà, di muoversi senza il controllo di nessuno, salvo che di se stesso. Un’esperienza che possiamo gustare ancora oggi solo se ci rechiamo nelle zone più remote della terra.
In quella dimensione il “rifugio” era un luogo benedetto, soprattutto quando vi si giungeva durante le intemperie o senza più tante forze in corpo. Il rifugio era il luogo in cui accettavi le regole della casa, senza pretese, perché il rispetto verso la montagna era ancora grande nel cuore dell’uomo.
Era il luogo in cui il gestore condensava in sé tutta la forza e l’energia di uomo libero, capace di dare protezione e consigli agli alpinisti e ai viandanti, perché conosceva gli elementi del suo luogo.
Quale era la differenza?
– la coscienza.
La coscienza dell’essere umano. Chi saliva in montagna ci andava a proprio rischio e pericolo: questo faceva parte del fascino della montagna, che ripagava interiormente lo spirito del viandante o dell’alpinista. La conquista del rifugio assumeva un po’ lo stesso valore della conquista della montagna, poiché ci si avvicinava non per pretendere soddisfazione per il proprio ego, bensì per ritrovarsi e accettarsi come parte integrante di quella natura. Un aspetto “intimo” che non si misura con le mode e le tecnologie.
Quando BrunoDetassis esaminava i futuri portatori al rifugioBrentei, mio padre AntonioCestari arrampicava con CesareMaestri, gli accademici GinoPisoni e MarinoStenico avevano aperto già diverse vie sul Brenta e i rifugi erano già le sedi di vere scuole di montagna. Erano gli anni del dopoguerra, le corde erano ancora di canapa, ma gli alpinisti si riconoscevano come un’unica stirpe, senza confini culturali e nazionali, perchè il rispetto della montagna era qualcosa che trovava il suo “confine” nei valori del rifugio, come lo conferma la storia stessa del Tuckett:Costruito nel 1905 dalla #SAT e chiamato Rifugio Quintino Sella in onore al fondatore del #CAI, venne ampliato l’anno successivo dal Deutscher und Osterreicher Alpenverein (club alpino tedesco – austriaco), sezione di Berlino, che venne intitolata all’alpinista britannico #FrancisFoxTuckett.
Ieri erano il punto di riferimento della valle. Oggi i #rifugi sono diventati l’appendice turistica della valle, degli impianti, degli eventi.
Chi vi giunge – oggi facilitato dai mezzi e dalle tecnologie, si aspetta qualità, servizio, cortesia, varietà di proposte, linee internet adeguate, servizi diversificati e magari le proposte in più lingue. Forse talvolta noncuranti della fatica di organizzare un servizio di ospitalità in quota.
Lo sforzo dei rifugi è quello di migliorare costantemente, di adeguarsi alle richieste, di rispondere alle esigenze dei propri ospiti, di sopravvivere a dei costi di gestione ancor più elevati. Ma nel contempo i gestori dei rifugi sono forse gli ultimi esseri umani in Europa a rendersi conto che il loro ruolo d’intermediari di fiducia tra le leggi della natura e quelle dell’uomo sta scomparendo.
Il richiamo dell’Identità
Recupero dell’identità quindi. Prima che sia troppo tardi. Ma come?Un cammino importante, che richiede un forte impegno nel rispolverare i valori più autentici del rifugio alpino, in una logica di coesione di gruppo.
Un’operazione concreta, da compierne con sapienti passi capaci di ridare il giusto valore e vita al rifugio alpino, di rendere più autonomo e indipendente il rifugio di fronte all’omologazione dei criteri turistici e leggi fatte per grandi numeri che stanno divorando le identità più deboli nel mondo.
Un passo per riportare gli alpinisti e i viandanti a difendere i rifugi dall’oblio di gente poco consapevole della montagna, e recuperare invece coloro i quali hanno un sentimento genuino e di rispetto profondo di questi valori, che diverranno i “promotori” verso altre persone consapevoli.
Non è uno slogan promozionale. E’ un’eredità, da vivere, trasmettere e tramandare.
10 commenti
Profondamente vero quello che scrivi e bella davvero la tua visione sui rifugi. Sono d’accordo, e su questa linea, alla ricerca delle identità di montagna, sto seguendo in questi ultimi mesi un dottorato di ricerca sulle borgate alpine di alcune vallate cuneesi (le Valli Grana e Stura in provincia di Cuneo). Memorie, archivi polverosi, testimonianze di vecchi “saggi” rimasti lassù: in definitiva un patrimonio “identitario” davvero straordinario. Un mio dottorando, Lele Viola, agronomo e docente di un Istituto tecnico per geometri a Cuneo, montanaro vero e scrittore valente, se ne sta occupando (vedi http://www.leleviola.it/modules/ibuc/pdf/Andare_per_borgate_013.pdf). Un’esperienza nuova che si ricollega a quei valori dell’agricoltura di un mondo che sta tornando a interessare, risvegliando nel profondo anche il sentimento di molti giovani.
Grazie carissimo Luca…
è proprio vero che tenere in vita il patrimonio identitario è l’unico vero investimento sostenibile di un territorio. Credo che vivi proprio in una delle regioni che meglio di tutte sa cogliere e conservare i valori…
Grazie anche del link dei ragazzi che amano lavorare in montagna che desidero segnalare: https://www.facebook.com/ragazziinalpeggio?fref=ts … da ammirare, e forse occorrerebbe partire proprio da qui.
Gli anziani infatti ci ricordavano che il valore di un popolo si osserva da cosa mangiano… chi ha coraggio di rimboccarsi le maniche come questi ragazzi oggi andrebbe aiutato e sostenuto molto di più di chi ci racconta la storia del latte, ma al contempo produce mozzarelle di bufala con paste di formaggio bavaresi.
Dear all,
I experienced many mountain refuges in several countries. The most important for me is a basic hygiene and safety but if in many cases refuges grow to altitude hotels we lose more and more the conviviality, the brotherhood between climbers, guardians, … and this made se sometime regrets the poor comfort of former years.
Important is also the ability of the guardian to inform on a correct way about changes in tracks, risks, …
I still have a great respect for those guardian who made our outdoor activity safer and always enjoy the evening in a nice refuge.
Respect to my Italian friends at Rifugio Quintino Sella – Monte Rosa they run now a big altitude Hotel but with great alpine spirit !
Thanks !
Dear Claude
Thanks for your comment,
as we saw in our Mountaineer Group, I fully agree with you, and I believe all over Europe there is a general trend that tell us we should have the dignity to confirm the priority of reconnecting our habits with conviviality, brotherhood and values of former years, too.
And as you remember, respect is the basic word. Thanks to you and may be we will gather on some paths one day too, ciao!
Sono un amante della montagna, e leggendo il tuo post non posso che condividerlo.
Hai tradotto in forma scritta quelle che sono le mie impressioni di questi ultimi anni di escursioni.
Il mio timore è che anche fra i gestori dei rifugi scatti quel “salto generazionale” che faccia perdere definitivamente quel ruolo di intermediari che tu hai descritto molto bene nell’articolo.
E’ chiaro che deve esserci un compromesso con la realtà “laggiù in valle”, ma la pretesa di accomunare i rifugi di montagna a tutte le altre infrastrutture turistiche è una forzatura della realtà.
Servono normative ad hoc, ma anche le persone (gestori e soprattutto escursionisti) devono capire che non è possibile “pretendere” gli stessi servizi e gli stessi standard di un albergo in riva al mare.
Invece sempre più spesso vedo gente arrivare con il tablet, che chiede di potersi connettere, o che si irrita perché i gelati (sigh!) non sono della marca preferita…
Caro Franco, grazie del commento,… il passaggio generazionale è sempre stato un aspetto delicato, perchè richiede “quel tempo giusto” per consentire che i genitori educhino i figli. Qualcosa che è passato in secondo luogo di fronte a come il tempo burocratico “della valle” abbia ormai occupato gran parte del tempo dei gestori dei rifugi… Di questo molti gestori se ne stanno accorgendo a proprie spese… Anche se c’è chi sta aprendo gli occhi.
Tutto vero quello che scrivi , e, a me piace molto come descrivi i Rifugi di una volta.
Purtroppo non esistono più! Sono cambiati sia i Rifugi sia coloro che li gestiscono,
è cambiata anche la clientela. Purtroppo è tutto quello che ci circonda che ci fa cambiare
la gente che viene adesso in montagna pretende di avere la doccia in camera, il WiFi ,
la sauna e via di seguito……. Sembra di essere in un Hotel giù in paese.
Non capisce niente ne di natura ne di montagna, specialmente le persone che girano
d’inverno sulle piste da sci.Naturalmente anche noi come gestori dobbiamo cambiare
e adeguarci. Comunque restando vicino a queste bellissime montagne e natura
il mio animo rimane quello che avevo quando il mio Rifugio era un vero Rifugio.
Grazie Annalisa,
in parte è vero che i rifugi di un tempo non esistono più, tutto cambia, eppure chi punta ai valori dell’identità riesce a ritrovare quella dignità e quella forza naturale che consente di cambiare le cose.
Questa è un’epoca di cambiamento, tutti lo sanno e pochi ricordano che il cambiamento inizia dentro di noi. Quando facciamo questa scelta, iniziamo a non subire più quelle regole (dettate dalla routine) che tolgono quel sorriso e quello spirito positivo che cambia le persone e le situazioni che ci circondano.
Piccoli passi, piccoli passi che ci allontanano dalla valle e ci avvicinano gradualmente a quello che desideriamo realmente.
Credo che si tratta solo di incamminarci… e ce la fa chiunque si ricorda che: la natura è dalla nostra parte (come quando saliamo al rifugio a piedi, se facciamo un passo avanti, ci sorprende sempre con qualcosa di inaspettato… )
Spero di incontrarti sul sentiero,
un caro saluto, ciao
Belle parole, da sempre sostengo, quale gestore e guida alpina, che la montagna ha preservato un angolo di mondo, dove c’è ancora un livello civico elevato ed una sua identità culturale. Ho assistito in trent’anni di professionismo alpino (gestore e guida), ad un cambiamento epocale della frequentazione della montagna, a cavallo fra gli anni 90 e 2000; prima di questa data, tutti, dall’alpinista, all’escursionista, conoscevano il linguaggio tecnico della montagna ed il gestore, allorché dava indicazioni, sapeva che il suo interlocutore avrebbe capito cosa voleva dire e distinguere, un PD (poco difficile) riferito ad una salita di una montagna ed un difficile, riferito ad sentiero da rifugio a rifugio. Al giorno d’oggi se non fai un lungo discorso di premessa, spiegazione e contestualità, corri il rischio che il tuo interlocutore si cacci nei guai, seguendo l’istinto del poco difficile, inteso come più facile, del sentiero difficile.
Però, però………..una volta che il gestore aveva capito quale cambiamento fosse avvenuto, un po’ di tempo lo ho impiegato anch’io, nella frequentazione della montagna e considerando comunque che chi decide di fare due ore a piedi, sicuramente una certa mentalità aperta a certi valori possiede…..ecco che si apre alla sua professionalità, una grossa fetta di valore, quella di, senza falsa modestia, diventare maestro di quella filosofia alpina, fatta di regole non scritte, valori, modi di fare e forme d’educazione e conoscenza di cosa sia e non sia, un rifugio. Vi assicuro che chi ha l’input positivo di partire a piedi, nel novantanove per cento dei casi, è anche ricettivo alla filosofia della montagna, dirò di più: ne resta affascinato.
Ora però, attenzione: nell’era dei social e qualsivoglia diavoleria di “infernet”, come lo chiama un mio caro amico, ‘ove a fronte di potenzialità comunicative enormi, c’è anche una superficialità spaventosa, ho avvisaglie, dal mio punto di vista a 2600 metri d’altezza, di un nuovo e ben più epocale cambiamento: l’arrivo in quota dei “fulminati”, quella specie di umano forgiato dalla superficialità di “infernet” che saccente ed arrogante, fanatico e kamikaze (non ho scritto questi aggettivi a caso, hanno un significato anche nella loro sequenza), non riconosce più la cultura di un luogo, l’identità di un posto e dei suoi abitanti, ed io, lo ammetto, ho paura, perché non so come potrò confrontarmi, con queste persone…………..
N’abraz a tutti
Grande Sergio!
mi ricordo di te a Castel Toblino: hai usato parole di chi apre la mente e il cuore al mondo, come insegna lo spirito della montagna! (sinceramente mi sono chiesto come mai l’associazione faceva un incontro sottoterra! :-).
Quello di cui parli è un punto fondamentale: oggi le iper-specializzazioni prevalgono su dignità, saggezza e valori (e apertura mentale). Poi ci si chiede perchè la montagna muore.
Se non si rimette “la palla al centro”, credo che le carte sommergeranno la montagna.
Chiediamoci piuttosto: cosa avrebbe fatto il vecchio Detassis se un turista gli avesse chiesto una camera con la doccia cromatica … ? 🙂
Di certo la sua risposta “educativa” sarebbe stata poco “sofisticata”, però credo che – soprattutto oggi – quello stile concreto può insegnere qualcosa di più a chi sta proponendo solo prospettive “di valle”.
Caro Sergio, hai ragione e credo che qualcosa di buono stia però accadendo: sostituire le persone indesiderate con chi rispetta i valori oggi si può, e in questo, ciò che viene veramente in aiuto, è proprio internet…
Te saludi, e n’abraz!